
Storie di neve e di valanghe tra Lozzole e le Spiagge
I soci del CAI che frequentano i sentieri lungo i crinali, le Chiese e i borghi abbandonati tra Palazzuolo e Marradi, una ventina d’anni fa raccolsero la testimonianza di Smeriglio, un anziano (allora aveva 92 anni) nato e cresciuto a Cà del Piano nei pressi della Chiesetta di Lozzole sui monti di Palazzuolo. Tra gli eventi che a Smeriglio erano rimasti più impressi durante la sua lunga vita in montagna c’erano le insistenti nevicate che si ripetevano negli inverni mettendo a dura prova la stessa sopravvivenza degli abitanti, allora numerosi, della montagna.
Una di queste nevicate era diventata quasi leggenda. Smeriglio infatti racconta che in un periodo non ben precisato, ma sicuramente prima della sua nascita, perché suo padre, diceva di aver sentito questa storia da un pastore che abitava a Cà del Cigno quando era molto giovane e girava per le case a suonare durante le feste. Molti anni prima nella casa di Cà del Cigno vivevano marito e moglie, tre figli piccoli e il garzone. Durante un inverno durissimo, con tanta neve, i due genitori andarono a prendere acqua da una fonte vicino alle Spiagge, ma una slavina li travolse e morirono entrambi. Andò a cercarli il garzone preoccupandosi del loro
ritardo, ma subì la stessa sorte. Dopo otto giorni quelli delle Fogare, che dal loro punto di osservazione vedevano la casa, notando che il camino non fumava più, chiamarono la famiglia di Cà del Piano e si recarono sul posto. Dopo varie ore percorse a piedi, trovarono i tre figli ed il bestiame morti dal freddo e dalla fame. Si era salvata solo l’asina, che era riuscita a
liberarsi nella stalla, a sfondare una porta ed a mangiare la farina di marroni raccolta in un cassettone.
Oggi è difficile, se non impossibile, immaginare che tra queste montagne e valli, viveva una comunità di uomini e donne, di bambini e di anziani, di boscaioli. e di contadini, di ragazzi e di ragazze. Anche noi vorremmo saperne di più. Smeriglio è nato a La Maestà, che fu successivamente abbattuta e sostituita da una stalla, dove abitavano cinque famiglie di boscaioli, di “casanti”, il mestiere di suo padre e che anche lui svolse fino agli anni della gioventù. Poi la sua famiglia, essendo troppo numerosa, ben
cinque figli, più due morti subito dopo il parto, decise di dedicarsi al lavoro della terra, trasformandosi in mezza Casetta di Costa ed a Cà del Piano. Una sorella, nata nel ’10, abita a S. Martino. Sua madre, nata a Pian delle Fagge, non era mai andata al mare. Suo padre, Tugnì, evitò la
prima guerra mondiale perché aveva quattro figli e per lo stesso motivo anche Smeriglio fu esonerato nella guerra successiva. Il servizio militare lo aveva svolto a Reggio Calabria, impiegando due giorni di viaggio e ritornando una volta sola a casa in licenza.
Nel ’32 sposò la Rosina e misero al mondo tre maschi e tre femmine.
La vita dei boscaioli era dura, lavoravano di pennato e di mannaia e spesso dovevano trascorrere diversi giorni nei boschi e dormire nelle capanne.
Smeriglio ricorda la gran nevicata del ’29. In alcuni punti c’erano quattro metri di neve, con il difficile problema di portare il bestiame a bere nel torrente e dovettero spalare giorni e giorni per aprire un varco. La neve era così alta che vedevano solo le corna delle mucche.
Durante l’inverno per una famiglia la sopravvivenza era più “facile” rispetto al bestiame, perché in autunno bisognava decidere quanti capi potevano superare la stagione in base al foraggio disponibile e quelli eccedenti erano venduti finché erano in buono stato. A volte per
carenza di foraggio si utilizzava anche “è stram” (lo strame) e gli animali in primavera tornavano al pascolo in condizioni pietose.
E le famiglie contadine come superavano questi duri inverni? In fondo “é basteva poc”, (bastava poco), dice Smeriglio, per sfamare la famiglia: la farina di marroni, conservata nello “scorz” (la mastella), una soma di grano per il pane, (una soma era pari ad ottanta chilogrammi, suddivisa in quattro staie). la polenta, i formaggi ed il latte, il maiale. Un maiale,
purtroppo, molto magro. Il pane veniva fatto ogni otto giorni e per lievitarlo si usava la “madre”, un pugno di impasto. Si stava anche un mese senza uscire di casa e solo il capofamiglia si recava a fare acquisti una volta alla settimana. E si trasformava in dramma un incidente come quello che
capitò durante il ritiro della farina dal mulino. Ne aveva caricato sull’asina una soma e doveva attraversare quattro o cinque volte il fosso, ma durante un guado l’animale cadde in acqua e bagnò gran parte del carico, e riuscì a salvarne solo una piccola porzione. Fu un colpo pesante,
perché andò distrutto il frutto di un lungo lavoro e la farina valeva un tesoro. Dalla fine della guerra al 1960, in quindici anni, tutto il territorio montano fu abbandonato, una vera e propria fuga verso la pianura, che contagiò i giovani, con la speranza di una vita migliore e dei vantaggi del progresso industriale: le case con i servizi, la luce elettrica, le auto, le nuove opportunità di lavoro e di reddito.
Nel 1954 erano rimaste a Lozzole 199 persone e nel 1956 solo due famiglie, di cui una era quella di Smeriglio. Di quel durissimo inverno, ricorda un’altra grande nevicata, tanto che rientrando da Palazzuolo, quando giunse a Lozzole si trovò in mezzo ad un bufera di neve e rischiò di non ritrovare la strada per Cà del Piano. Imprecò e disse “accidenti a quel boia che abita qui!” Ricorda che si ammalò gravemente e che riuscì comunque con la cavalla a recarsi nuovamente a Palazzuolo, dal medico, che lo fece trasferire a Firenze per le cure del caso, a carico della mutua dei “piccoli proprietari”.
Il figlio grande stava prestando il servizio militare ed a casa erano rimasti la moglie, la nuora e gli altri fratelli più piccoli, ad occuparsi del bestiame. Ancora convalescente guardava dalla finestra i ragazzi e la nuora che coperti da montagne di neve andavano a Le Fogare a prendere il fieno per il bestiame.